MS, Mémoire Souvenir
Kosme de Barañano - 2020
La presente mostra di Marina Sagona espone l’opera Ubi Consistam, un complesso visivo formato da due gruppi di trenta sculture (le serie Organs e The Five Senses), un gruppo di sedici disegni a pastello su stampa intitolati Passport, e il video intitolato Self-Portrait -Autoritratto. Ubi Consistam funziona come un saggio, quel genere letterario scritto in prosa in cui un autore sviluppa le sue idee su un determinato tema in modo e stile personali: a short piece of writing on a particular subject, often expressing personal views, secondo il dizionario; sempre con spirito critico. Il saggio Ubi Consistam funziona come una composizione che trasforma un insieme coerente d’idee (in questo caso di fogli, oggetti e un film) in una dissertazione sul senso dell’identità (sia propria, sia nazionale).
Non è un saggio lineare, bensì una riflessione a tre livelli e con tre tecniche diverse. Non conduce il lettore o il pubblico della mostra attraverso un percorso strutturato secondo una logica lineare, ma lo porta a un approccio che passa per il documento (il passaporto, che ci attribuisce una nazione e un territorio) e da questo, per una serie di elementi, di calchi (chiaramente identificabili con parti del nostro corpo e altri elementi che fanno riferimento ai nostri sensi e ai loro rispettivi organi: un orecchio, un naso, ecc.) ed infine a un film con sei interviste. I tre elementi di Ubi Consistam non sono sezioni o capitoli di un saggio, bensì movimenti argomentativi, in musica diremmo adagi, che ruotano intorno allo stesso tema.
L’insieme di stampe Passport è formato da sedici immagini realizzate a partire dalle pagine doppie del passaporto, di misure ingrandite (in questo caso di 61 x 45,5 cm.) e modificate. Ciascuna delle sedici pagine del passaporto è illustrata con un paesaggio statunitense, con frasi di presidenti degli Stati Uniti e con citazioni estratte dalla Dichiarazione d’Indipendenza. Si tratta del passaporto americano dell’artista, ottenuto nel 2017 dopo aver vissuto ventidue anni a Brooklyn e a New York. Il passaporto americano è una nuova identità (burocratica), che si aggiunge a quella italiana, alla vita vissuta a Roma, dove l’aria di Tripoli impregnava ancora la casa familiare. Nelle stampe di queste pagine l’artista disegna le sue iniziali MS in maiuscolo, in verde e rosso. La posizione delle due lettere M e S nei diversi fogli non è casuale; Sagona le dispone e le usa per evidenziare determinate parole specifiche che, estratte dal contesto, creano una narrativa nuova e indipendente.
Il termine passport - sia in italiano sia in spagnolo e sia in inglese - proviene dal francese passeport, dal verbo passer e dal sostantivo port. Durante il suo regno Luigi XIV concesse dei documenti di viaggio ad alcuni sudditi, che li chiamarono “passeport”, che letteralmente significa “passare per un porto “, poiché la maggioranza dei viaggi fuori dalla Francia si realizzava in barca a vela o per la porta di una città. Il passaporto storicamente è, quindi, il documento che ci identifica per uscire o entrare nel “nostro” territorio. Sagona ci porta a riflettere su questo documento, grazie alle sue iniziali e a frasi e paesaggi. A volte dimentichiamo da dove provengono le cose. Cos’è il passaporto? Fino alla Prima Guerra Mondiale abitualmente non erano necessari passaporti per viaggiare all’interno dell’Europa, e attraversare una frontiera era un procedimento relativamente semplice.
In un certo senso, l’attuale passaporto nasce nell’Ottocento con le ferrovie, quando i treni permettono a migliaia di persone di spostarsi a una velocità nuova per il territorio, in modo tale da creare un totale collasso del sistema europeo di passaporti e visti. Per questo motivo nel 1861 la Francia abolì i passaporti e questo tipo di documento era in pratica inesistente nel 1914. La guerra porta una rinnovata preoccupazione per la sicurezza nazionale e, quindi, i passaporti furono di nuovo richiesti. The British Nationality and Status of Aliens Act (la Legge di nazionalità britannica), approvata nel 1914, definì chiaramente le nozioni di cittadinanza e creò un passaporto del formato che conosciamo. Era valido per due anni e, oltre ad una fotografia e a una firma, includeva dettagli come “forma del viso”, “corporatura” e “altri tratti caratteristici”. Molti sudditi britannici si lamentarono della nasty dehumanisation, la “sgradevole disumanizzazione” che rappresentava la descrizione dell’impiegato pubblico di turno. Dopo un accordo della Società delle Nazioni per standardizzare i passaporti, nel 1920 fu emesso il famoso passaporto blu, iconica immagine dei viaggiatori britannici finché apparve l’attuale versione europea di colore bordeaux nel 1988.
Tuttavia l’origine del passaporto o salvacondotto si trova nella Bibbia: nel libro del profeta Neemia (2: 7-9), databile approssimativamente al 450 a.C. Nel testo si racconta che Neemia, un funzionario al servizio del re Artaserse I di Persia, chiese il permesso per viaggiare in Giudea; il profeta, che era coppiere reale, voleva ricostruire le mura di Gerusalemme. Artaserse gli concesse il permesso e gli consegnò una lettera “per i governanti dell’altro lato del fiume” con cui richiedeva un passaggio sicuro mentre Neemia viaggiava per le loro terre. Nel XX secolo passa da documento di viaggio (da salva-condotto) a strumento per l’identificazione, chiave per la sicurezza nell’attraversare le frontiere, ma anche per reclutare gli uomini di governo. Un documento di viaggio che certifica l’identità e la nazionalità del titolare, un documento che protegge, si converte in un documento di controllo, di sottomissione.
Le richieste per la nazionalità da cui uno proviene e la sottomissione al passaporto mi ricordano alcune riflessioni di Jours caucasienes (1945) della scrittrice Banine (1905-1992), pseudonimo di Umm El-Banu Asadullayeva, nata a Baku, in Azerbaigian. Jours caucasienes è una memoria di gioventù di una donna cresciuta in quel territorio in continua tensione fra Oriente e Occidente, fra islam e cristianismo, fra arabo e russo, che passa per il lusso di Berlino e Budapest e finisce a Parigi, una donna perseguitata sempre dalla necessità di un passaporto per poter essere libera, essere se stessa. Mi ricorda anche una nota nel blog “Apuntes e instantaneas” di un altro nomade, che risiede a Barcellona, David Mauas, autore del film Goya, el secreto de la sombra (2011, Spagna, 77 min.). In una nota del novembre del 2010, egli registra: “Consolato di Colombia. Pratiche per il visto. Una donna dice a un’altra: «rinunciare alla propria patria è come rinunciare alla propria madre». La donna si accorge che la osservo. Sguardo di rimprovero, condiscendente”.
In Sagona la patria è la casa, il suo manuale è essere felice nelle mura domestiche. Il paradiso è la casa di ciascuno, una casa-rifugio dev’essere una fortezza emotiva; però non rinuncia alla madre patria. Tutti i suoi registri, da Passport a Self-Portrait, sono marchiati con i colori della bandiera italiana.
Il secondo nucleo di Ubi Consistam è un doppio gruppo di sculture, due serie intitolate Organs e The Five Senses, realizzate nel 2018 in gesso e ricoperte da uno smalto e ripetute in tre colori, verde, bianco e rosso. La prima serie, denominata Organi, è formata da cinque elementi (ogni calco misura 12,7 x 20,3 x 2,5 cm) che rappresentano la traccia o l’impronta di cinque organi del corpo umano: il cervello, la trachea, il fegato, un tratto dell’intestino e il cuore. La seconda serie, denominata I cinque sensi, è formata da impronte in negativo di un dito, una lingua, due occhi, un orecchio e un naso. Questi rilievi rappresentano il tatto, il gusto, la vista, l’udito e l’olfatto attraverso lo spazio negativo dell’organo corrispondente.
Le trenta piccole sculture prendono forma dal desiderio di materializzare un vuoto, un’identità che nasce da una mancanza di definizione. Tutte possiedono una fisicità, un tatto, sono calchi di forme umane, dei loro organi e delle loro viscere, e allo stesso tempo sono spazi vuoti, memoria di quello che furono, lo spazio negativo di ciò che sono realmente. Ogni serie si ripete tre volte in verde, in bianco e in rosso, i colori della bandiera italiana già presenti, come segnalato in precedenza, nelle iniziali MS in Passport e nel viraggio dei colori del video Self-Portrait.
La formula della bandiera, il gioco dei tre colori, è come il caro amico o l’apostrofo “fra ‘Guittone” nel Trattato d’amore di Guittone d’Arezzo (c.1230 - 1294). Mi riferisco al manoscritto Escorialense di rime italiane antiche (codice latino, pergamena me.III.23 de la Real Biblioteca de San Lorenzo de El Escorial, Madrid). Il poeta reinterpreta in maniera moralista una lunga tradizione letteraria, che dal Remedia amoris di Ovidio perdura fino ai trovatori, e arriva ai poeti della cosiddetta tradizione ‘veneziana’ delle rime dello Stil Novo. Guittone trascrive poemi, li analizza, e allo stesso tempo li reinventa o “ricomincia” spiegando le sue immagini, affinandole, come fa Sagona nelle stampe di Passport. Guittone riflette, oltre che sulla poesia, sull’importanza dell’interrelazione poetica e metapoetica, fra scrittura e immagine, poiché le relazioni dinamiche all’interno del testo unico e quelle del testo nello spazio (lo spazio materiale del libro manoscritto e quello metaforico, relativo alla sua produzione, circolazione e ricezione) si mostrano anche come rappresentazione lirica e rappresentazione iconografica, come parti complementari della pianificazione macrotestuale dell’autore.
Nella serie di sculture di Sagona Organi e I cinque sensi vediamo, inoltre, la pratica ermeneutica medievale dei diversi gradi di significato: dal figu- rativo (letterale, pittografico), attraverso il figurato (metaforico), fino al figurale (morale); il che equivale, nell’ambito dell’interpretazione delle Scritture, a «se- cundum historiam, secundum allegoriam, secundum tropologiam». Ricordiamo che la scultura è un’ars mechanica (nel sistema delle arti medievali), di un docere per visibilia (insegnare attraverso ciò che è visibile) che appartiene alla sfera del letterale, nel senso di figurativo-pittorico. In Sagona la descrizione dei sensi dell’essere umano compare come calco, come una “figura” o come una stampa, cioè come un’immagine.
Il terzo argomento o nucleo di Ubi Consistam è il video Self-Portrait-Autori- tratto (25:55 minuti). Si tratta della registrazione di sei interviste con sei donne diverse, su temi diversi; una è la stessa artista, che parla di codipendenza e abbandono e un’altra sua figlia, nata a New York, che parla della diversa ma- niera di crescere da un paese all’altro. Le altre persone intervistate sono Judith Thurman (scrittrice), Ingrid Rossellini (professoressa), Giovanna Calvino (autrice) e Anna Funder (scrittrice). Tre delle protagoniste (sono tutte donne) parlano in inglese e tre in italiano. Attraverso il discorso di queste donne prende forma il ritratto dell’artista, poiché è lei a selezionare determinate frasi rispetto ad altre e sovrascriverle sullo schermo. Il montaggio delle interviste e la sottolineatura - nell’editing del video- delle parole delle altre donne, ci conforma e conferma il pensiero visivo di Sagona.
C’è una punta di nostalgia in tutte le interviste. Il termine “nostalgia” viene dal greco nostos, “ritorno-casa” e algia, “dolore-mancanza”. La parola viene ripre- sa nel XVII secolo quando alcuni medici svizzeri diagnosticarono una strana e nuova malattia contagiosa nei soldati mercenari. Il trattamento della misteriosa “nostalgia” includeva l’uso di sanguisughe, emulsioni ipnotiche, oppiacei e un viaggio nelle alte cime delle Alpi. Nel XIX secolo, il termine si utilizzava per riferirsi a un male più grande, a una malinconia di molti esseri umani, un destino, una specie di malattia passeggera. La nostalgia divenne storica e si convertì nel male del secolo.
Svetlana Boym in The Future of Nostalgia (2002) identifica due tipi di nostalgia, ciascuna delle quali sottolinea una delle due radici della parola. La prima è inevitabilmente vincolata alla casa, cerca un ritorno al luogo mitico che si trova nell’isola d’Utopia, dove si ricostruirà una “patria più grande”. Questa nostalgia è collettiva e ha una funzione ricostruttrice, è la nostalgia “restauratrice”, così caratteristica dei nazionalismi che formulano e fabbricano miti storici su misura. Il secondo tipo di nostalgia pone in particolar modo l’accento sull’atto del sentire la mancanza, un sentimento di perdita e distacco, ma anche una storia d’amore con la propria fantasia. Non vuole ricostruire un mitico luogo perduto e si crogiola nella distanza. Non cerca un referente poiché l’amore nostalgico può sopravvivere solamente in una relazione a distanza. Si tratta di una nostalgia ironica, frammentaria e unica. Questa nostalgia esamina l’esilio attraverso una doppia esposizione o sovrapposizione di due immagini: la casa e ciò che è foraneo, il passato e il presente, il sogno e la vita quotidiana. Nel momento in cui cerchiamo di rinchiuderlo in una sola immagine, Sagona vede che rompe la cornice o brucia la superficie.
Nella stessa maniera, con una capacità di penetrare nel dettaglio propria di Walter Benjamin, in Ubi Consistam Sagona passeggia, è una flaneur, che si muove tra il saggio fra Passages (Das Passagen-Werk) e la Strada a senso unico (Einbahnstraße del 1928).
Le interviste, inoltre, sono virate in tre colori: le prime due in verde, la terza e la quarta in bianco, e la quinta e la sesta in rosso, cioè nuovamente i colori della bandiera italiana, gli stessi degli spazi negativi delle sculture degli organi del corpo o delle iniziali MS impresse nei disegni di Passport. In fondo le interviste sono anche un distillato di una visione della natura dell’identità. Forse l’espressione più completa è la frase della scrittrice australiana Anna Funder: Non voglio essere una conchiglia (windowframe) attraversata dal vento.
Il tema dell’identità era già presente nelle opere di Sagona come illustratrice di libri o nelle mostre precedenti, ad esempio, quella intitolata La donna al plurale, presentata alla Tricromia Illustrator’s International Art Gallery di Roma nel 2011. Le opere dell’artista erano inspirate al poema “Il cantico dei cantici” del poeta ceco Vítezlav Nezval (1900-1958), e al libro La donna al plurale (Einaudi Roma 2002). Il tema delle radici appare in precedenza nei suoi libri illustrati per bambini, ad esempio in Voglio essere un albero (Einaudi Ragazzi, Roma 2007).
Ubi Consistam significa punto stabile (una base, un’ubicazione fissa) ed è parte della traduzione latina della frase che Archimede avrebbe pronunciato, in gre- co, dopo aver scoperto il principio della leva: “da mihi ubi consistam, et terra coelumque movebo”, tradotta nel luogo comune “dammi un punto d’appoggio e solleverò il mondo”. Riassume la necessità dell’essere umano di avere o partire da un punto stabile, un fondamento solido, dal quale creare il suo mondo e la sua esistenza; un’esistenza, uno slancio vitale, non solo di forza fisica, ma anche di necessità psicologiche. È una riflessione su se stessi, per quanto riguarda il corpo (i nostri sensi) e per quanto riguarda i documenti (l’identità che il passaporto da alla nostra esistenza): l’io fisico e l’io in quanto cittadino, il corpo e la sua targa d’immatricolazione per spostarsi nel mondo.
In fondo è una riflessione sulla singola storia umana, su come l’individuo è ri-presentato, identificato da un pezzo di carta. Nel suo insieme Ubi Consistam è un progetto su come ci costruiamo un’identità e su come a volte la nostra identità non è più a fuoco. Non si tratta dei propri cambiamenti (fisici o psicologici), ma di come ci cambia il contesto incui viviamo (sia per le strutture sociali sia per quell’apriori che è il passaporto, il documento d’identità, il pezzo di carta che certifica e afferma la nostra esistenza). Il passaporto da validità ai nostri organi, al corpo che abitiamo e con cui percepiamo il mondo. La nostra percezione è determinata dai nostri organi e dai nostri sensi. È la nostra memoria impressa in queste interviste, così diverse e, tuttavia, così uguali. In qualche modo il vero (del passaporto) ci orienta verso il falso (sono Libico, Italiano, Americano).
Per me questa identità si manifesta in altri ambiti: la terra natale, la patria; si manifesta all’interno del self, di se stessi, nella memoria involontaria, nel cibo e nella voce, o meglio nel tono di voce: in come si modulano e si sentono certi termini come pentola, chiodi di garofano, ecc., nello straordinario video intitolato Couscous del 2020 (6:17 minuti). Couscous è un breve video, strutturato come un dittico. Nel lato destro dell’immagine si succedono diversi frammenti di film familiari, un family footage; nell’altra metà, su uno sfondo color pasta e ceci, si susseguono delle informazioni concise e lineari sulla famiglia e sul padre dell’artista. Sagona proviene da una famiglia italiana residente sull’isola di Malta per più di duecento anni e trasferitasi in seguito in Libia durante l’Impero ottomano; il padre Oreste nel 1966 si sposa e si trasferisce a Roma; il resto della famiglia, lo segue nel 1969 dopo il colpo di stato di Gheddafi.
Malta è un’isola abitata da molti italiani, un’isola che Ferdinando di Borbone, re di Napoli e di Sicilia, dopo la firma del Trattato di Parigi del 1814 e con il Congresso di Vienna del 1815, consegna all’Impero Britannico nel 1816, e nella quale viene proibito l’italiano come lingua officiale nel 1936; molte persone si trasferiscono, quindi, in Libia. Attraversano il Mediterraneo come avevano già fatto gli ebrei erranti, con rassegnazione, ma anche con vitalità, con genuina buona fede. Ciò che nessuno può togliere loro è questo tempo che è proprio e personale come lo sono gli anni e secoli ereditati intrecciati nel sangue e nella memoria e, per così dire, nella “patria”: questa non è mai stata un luogo fisico, ma un luogo mentale.
Couscous condensa una memoria del sopra-vivere felici.
Il filosofo francese Henri Bergson distingueva due memorie, o meglio due modi di analizzare quello che chiamiamo memoria o ricordo del passato: quella che proviene o si incamera attraverso i “mécanismes moteurs”, che si ottiene con lo sforzo di volontà, e quella che proviene o si incamera attraverso i “souvenirs indépendants”, una memoria spontanea, un’immagine che si fa presente. Alcuni anni dopo Gilles Deleuze distinguerà, da un’altra prospettiva, fra “mémoire- souvenir (souvenir pur)” e “mémoire-contraction (souvenir-image)”. La prima, la memoria della volontà, si accumula nel cervello (matter) e l’altra nella coscienza (life, mind). Il cervello, con l’aiuto della percezione, ripassa o scannerizza le memorie-ricordi e seleziona quelle necessarie all’azione di vivere o sopravvivere. La memoria automatica, che è, per così dire, conservata nel corpo, con le sue reazioni automatiche davanti alle situazioni che ci presental’esistenza; nella traduzione americana è l’habit formed memory, habitual memory, o pure recollection.
La seconda, è la memoria di lunga durata di ciascuno, che consiste nella sua individualità, nell’amalgama della totalità del suo passato e presente. Bergson la chiama indipendente perché in essa le immagini si conservano sempre intatte come tali, indipendentemente dalla situazione in cui vive l’individuo; è pure memory. Memoria pura è quella che ci arriva come immagine-souvenir che si conserva dentro se stessi, come una contrazione che evoca un determinato momento e plasma il nostro presente. Tutto ciò si vede in pratica nelle sei interviste di Self-Portrait. Il tempo della coscienza non è un tempo spazializzato e reversibile (a cui si può tornare indietro per ripetere l’esperimento come nella scienza); la sua caratteristica di base è la durata: l’io vive il presente con il ricordo del passato e l’anticipo del futuro, che esistono solamente nella coscienza che li unifica.
In Passport Sagona imprime non solo i suoi dati civili, ma anche paesaggi e frasi. Passport è anche un’impressione, un’impronta di questa trama di esperienze che Sagona aveva man mano delineato a posteriori mentre attendeva la nazionalità.
Marcel Proust nell’ultimo libro Il tempo ritrovato (postumo, 1927) dirà che degli esseri e oggetti del passato ci resta anche l’odore e il sapore, che a volte -come l’odore delle madelaine- dura molto più a lungo: “a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpa- bile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo”.
In Couscous Sagona costruisce questo edificio del ricordo non solo con la memoria dei filmati, le spiagge e le strade di Tripoli, l’architettura, ma anche con i suoni, con la voce del padre che spiega una ricetta di cucina. Il sassofonista Gato Barbieri nel suo disco Caliente! (del 1976) indica: “le immagini della me- moria hanno dei suoni. Grazie al cinema ci siamo resi conto che le immagini contengono in sé musica. Con la musica succede qualcosa di più antico e di più intimo: quando realmente ti commuove, puoi inventare le tue immagini e sognare cose che non sapevi che avresti sognato. La musica è come un bosco (anche la memoria lo è): ha dei limiti, ma non li conosciamo. La musica è la memoria dei sogni.”
Il dittico visivo di Couscous è accompagnato da una voce che, in italiano, scandisce gradualmente la ricetta del couscous. Il cibo è il mezzo di comunicazione con cui si esprime il padre dell’artista: scandire una ricetta che gli piace è un modo di esprimere il suo amore, è spiegare le sue radici. In ogni ricetta c’è un aspetto lineare (il numero o lista degli ingredienti), ma anche un aspetto temporale, il codice per unirli (le maniere di tagliare questi ingredienti, di introdurli nel recipiente... i loro tempi). La ricetta di cucina è un linguaggio che non ha traduzione oltre la sua realizzazione. Qui il mangiare (il saziare la fame) si converte in alimento, Food si converte in Nourishment, in alimento amoroso, in nutrimento. Il termine proviene dal latino nutrire da cui viene nurse, infermiera, e dal preindoeuropeo nutri, che ci offre nuotare, fluire.
Qui, in questo video del couscous, nel flusso della voce di Oreste, vediamo che la pentola non raccoglie degli ingredienti, ma delle esperienze vissute. Questo bollito, come territorio familiare, è un luogo sensoriale e allo stesso tempo un epicentro emozionale. Ogni patria ha dei limiti o limita, il luogo, no. Il cibo nem- meno.
Il tema del cibo è presente nell’opera di Sagona, da un punto di vista negativo nel libro infantile No – Anna e il cibo, (Orecchio Acerbo Editore, Roma 2006). La storia di un “no”, di una bambina che non vuole mangiare e che, giorno dopo giorno, poco a poco diventa un “sì, voglio mangiare”. Il libro racconta la storia o meglio il percorso verso una visione positiva del cibo di una madre e una figlia. Le quali alla fine si prendono per mano e decidono di crescere insieme. È un libro proiettato al futuro, mentre Couscous è una “mémoire-contraction”, un souvenir-image, pure memory.
Il film segue la logica del condimento, della cucina, per arrivare al sentimento e alla memoria di un territorio natale, quello spazio in cui siamo cresciuti. Sono la voce del padre che elenca gli ingredienti, il loro succedersi nella preparazione e lo stesso piatto a generare il vero sguardo su ciò che siamo. Come in Proust non sono delle semplici madelaine, bensì la preparazione del piatto che ci restituisce la memoria involontaria. In quest’atto di cucinare si riassume e si riappropria del territorio e dell’amore.
Nonostante Ubi Consistam sia un saggio, Sagona non segue propriamente le regole accademiche, l’analisi comparativa, ma semplicemente ci presenta degli oggetti e spinge la nostra attenzione verso ciò che essi rappresentano, simbolizzano e soprattutto determinano.
Ci presenta una geografia registrata su tre livelli (carta-rilievo-video) come se ci offrisse una mappa per poter percorrere un cammino che ci porta a una torre di avvistamento da cui riflettere non sul paesaggio, ma sulla nostra identità e sul salvacondotto che ci situa in un determinato territorio che chiamiamo nazione. Sagona struttura la sua riflessione sull’identità attraverso la sua identità burocratica, attraverso dei rilievi, rilievi che si riferiscono al suo corpo, e attraverso un video di interviste a donne che sopra-vivono in un altro paese.
Ubi Consistam si può leggere come una storia civile, come una saga poco eroica e come un semplice racconto visivo, senza avventure, il cui asse e motore è la lotta per la libertà personale, per il desiderio e per la felicità. Nonostante i colori della bandiera italiana nelle iniziali MS del passaporto americano, nonostante il tricolore virato del film, nel racconto visivo di Sagona non c’è né l’orgoglio del nazionalista, né la tristezza dello scettico. Siamo esseri umani e non esiste un’appartenenza alla specie, non esiste una patria della specie. La stessa lingua, lo stesso passato... sono tutte queste cose che uniscono? Unisce la comunità? Unisce la famiglia? Uniscono di più l’interesse a vivere in pace, a potersi esprimere, a vivere confortevolmente, a godere semplicemente del paesaggio in cui ciascuno si trova in ogni momento. Sagona va oltre in Ubi Consistam: indica quello che siamo e quello che è la realtà politica, che ci da un segnale della nostra identità, il nostro passaporto, l’assurdità della nazionalità e la nostalgia della terra natale. Ubi nsistam, come un mémoire souvenir, cerca il senso profondo e nascosto dietro la burocrazia degli errori che affiorano su ciò che chiamiamo civilizzazione.
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